anche se con buoni risultati, aveva portato avanti con poca
passione il lavoro che fu di suo padre e, prima ancora, del padre di sua madre. lo aveva
fatto per dovere di nascita perché, in effetti, avrebbe voluto fare tutt'altro.
come per i notai figli di notai e i farmacisti figli di
farmacisti tutti ritenevano che fosse uno spreco far andare in fumo il lavoro
di due vite e gli avevano devoluto la terza, nella speranza che questa ne
producesse una quarta, e così via.
quella mattina mentre guardava il volo degli storni fuori
dalla finestra, provò un senso di vuoto che gli procurò un piccolo mancamento e
una grossa macchia di caffè sulla sua costosa cravatta. fu la prima volta che
andò in ufficio con il primo bottone della camicia bianca aperto.
quello che avrebbe voluto diventasse il suo modo per campare
-la fotografia- era stato relegato a un hobby, in un cassettino rimasto
stranamente libero dalla voluminosa laurea in economia e dall'ingombrante masterinbusinessadministration regalatogli
quando era diventato dottore. una sorta di vortice da cui non era riuscito a
uscire.
forse a un certo punto si era pure convinto che fosse la
scelta giusta o forse, più semplicemente, si era arreso al volere degli altri,
per la sua incapacità ad affrontare le lotte che considerava troppo difficili.
e allora, tutte le mattine, annodava la cravatta e indossava il suo sorriso
migliore ingoiando quel senso di prigionia che aveva scambiato per reflusso
gastrico.
si era ritagliato un paio d’ore per pranzare coi suoi genitori, come faceva grossomodo tutte le settimane, e si era seduto al tavolo ad aspettarli guardando fuori dalla finestra il continuo mutamento degli storni che libravano ancora, constatando che qualsiasi immagine statica di quel balletto avrebbe restituito solo un’infinitesima parte di tanta bellezza.
si era contornato per una vita di donne che però non aveva mai amato e ormai erano un paio d’anni che da qualsiasi argomento si partisse si approdava a una nenia che suonava grossomodo così: doveva farsi una famiglia. sapeva benissimo che anche quel pranzo avrebbe avuto lo stesso epilogo.
intravide sua madre, Elisabetta, scendere dalla macchina e
spostare i capelli dal viso e suo padre, Filippo, sistemarle il collo del cappotto e sorriderle. per una curiosa coincidenza portavano gli
stessi nomi dei reali d’Inghilterra anche se, soprattutto lui, di nobile
probabilmente non aveva neppure l’animo.
i suoi genitori si erano sposati giovanissimi, lei era la
primogenita di una famiglia piccolo borghese e lui uno squattrinato che
sposandola aveva messo a frutto le sue ottime potenzialità. Filippo con gli
anni aveva cominciato ad amare sua moglie ma i primi tempi si era concesso
innumerevoli vie di fuga. lei, invece, lo aveva amato davvero dal primo giorno
e si era sobbarcata le scappatelle del marito con quella superiorità che solo
le vere signore hanno. il tempo, infine, aveva placato le frivolezze di lui e
premiato la pazienza di lei.
per Elisabetta, Filippo era stato l’unico uomo. avevano
fatto l’amore -come si conveniva- solo dopo il matrimonio e in quell'amore,
ancora un po’ goffo, avevano procreato Lui. avevano avuto un solo figlio più
per vanità che per destino e lo avevano cresciuto come se il peso dell’eredità
di quei nomi da regnanti, lo dovesse portare per davvero.
ora Lui era lì davanti a un bicchiere di prosecco a metà,
con la coscienza di aver fatto perdere la fame ai suoi commensali, a osservare
lo sguardo spaventato, incredulo, deluso e impaurito di suo padre e quello
triste, rassegnato e amorevolmente consapevole di sua madre.
-amo Paolo- aveva detto con un tono un po’ troppo alto. il
pranzo è servito.
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