si trovava lì a causa di una di quelle serate, che capitano
a tutti prima o poi, in cui ci si impegna per davvero ad essere diversi da
quelli che si è. una di quelle serate in cui si è fatto finta di essere
indipendenti, emancipate, affrancate dalla paura di ciò che gli altri pensano
di noi stessi. una di quelle serate in cui si finge di non soffrire la
solitudine di dentro, o la si soffre talmente tanto da sentire la necessità di colmarla
con voci sconosciute, chiasso e alcool.
si era svegliata una mattina in quella fase della vita in
cui si dovrebbero fare dei bilanci ma si ha paura di rilevare che qualcosa è
andato storto e l’utile tanto agognato, alla fine, non c’è. era una donna di una sensibilità estrema, invadente,
minacciosa. c’era
un velo nei suoi occhi e una gabbia nel suo cuore. ogni sussurro del mondo le provocava brividi incontenibili.
la sera in questione risaliva a sei settimane prima, dopo
una piccola delusione, una di quelle che in periodi migliori della sua vita non
avrebbe neppure considerato tale, aveva indossato un abito scollato e una buona
dose di mascara ed era andata in un bar in centro. era un locale con le luci
basse in cui conosci lo sguardo del barista ma non il nome. un ragazzo con la
chitarra suonava perso in un blues malinconico e stonato e un uomo, di cui
ricordava solo le mani, le aveva offerto qualche bicchiere di vino e un
abbraccio.