cornici

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lunedì 29 giugno 2015

appocundrìa

si trovava lì a causa di una di quelle serate, che capitano a tutti prima o poi, in cui ci si impegna per davvero ad essere diversi da quelli che si è. una di quelle serate in cui si è fatto finta di essere indipendenti, emancipate, affrancate dalla paura di ciò che gli altri pensano di noi stessi. una di quelle serate in cui si finge di non soffrire la solitudine di dentro, o la si soffre talmente tanto da sentire la necessità di colmarla con voci sconosciute, chiasso e alcool.

si era svegliata una mattina in quella fase della vita in cui si dovrebbero fare dei bilanci ma si ha paura di rilevare che qualcosa è andato storto e l’utile tanto agognato, alla fine, non c’è. era una donna di una sensibilità estrema, invadente, minacciosa. c’era un velo nei suoi occhi e una gabbia nel suo cuore. ogni sussurro del mondo le provocava brividi incontenibili. 

la sera in questione risaliva a sei settimane prima, dopo una piccola delusione, una di quelle che in periodi migliori della sua vita non avrebbe neppure considerato tale, aveva indossato un abito scollato e una buona dose di mascara ed era andata in un bar in centro. era un locale con le luci basse in cui conosci lo sguardo del barista ma non il nome. un ragazzo con la chitarra suonava perso in un blues malinconico e stonato e un uomo, di cui ricordava solo le mani, le aveva offerto qualche bicchiere di vino e un abbraccio.
si era risvegliata quando il sole era già alto, sola, in una stanza d’albergo. non aveva idea di come ci fosse arrivata lì, né di come si fossero svolte le ultime ore. quando era scesa nella hall il concierge, con sguardo complice, le aveva confessato che il conto era stato saldato dal suo compagno e lei, per evitare inutili giri di parole, con un sorriso di circostanza aveva voltato le spalle ed era fuggita via tuffandosi dentro un taxi.

era andata da un ginecologo qualsiasi senza dire niente a nessuno, per lasciare lì il risultato di quell'incontro, forte dell’insensatezza di tutta quella situazione. non aveva senso portare avanti quella gravidanza, mettere al mondo un figlio concepito per un abito scollato e un po’ troppa malinconia. voleva tornare a casa e rivestire i panni di se stessa il prima possibile, voleva tornare la donna che era, dimenticando la donna che era stata per una notte sola, cancellando chirurgicamente le tracce di quella buona dose di mascara e il ricordo di quelle mani.

fissava morbosamente un insetto che camminava lento sul muro lucido dell’ambulatorio, dondolandosi appena nell'attesa che fosse il proprio turno. accanto a lei una signora di mezza età, anch'essa tuffata nei propri pensieri e una ragazzina nervosa che riempiva di domande sua madre che rispondeva svogliatamente. quando l’infermiera la fece entrare il dottore non c’era. si sedette in una sedia di formica grigia di spalle alla porta.

allora, cos’abbiamo qui? disse il medico entrando nella stanza. Lei gli raccontò le sue intenzioni senza alzare lo sguardo e, quando finalmente lo ebbe di fronte, riconobbe quelle mani e, nell'imbarazzo di entrambi 

scusi, ci ho ripensato disse.

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