quattro anni per un metro esatto di altezza, due grandissimi
occhi blu e un groviglio di capelli castani in cui poteva comodamente
nascondere uccellini, stelle filanti, aeroplani, dinosauri e matite colorate. aveva
due grandi passioni, il gelato al cioccolato e suo padre. nonostante avesse
solo quattro anni, suo padre credeva fortemente in Lui che era testardo e
coraggioso. sognavano insieme il momento in cui gli avrebbe insegnato ad andare
in bicicletta, quello in cui avrebbe pescato il primo pesciolino o la prima
volta in cui sarebbero stati allo stadio e non si accontentavano di farlo
sommariamente, si addentravano nei dettagli: immaginavano come si sarebbero
vestiti, se la mamma avrebbe insistito per mettere un cappellino o la
canottiera, su quale scoglio si sarebbero appostati, cosa avrebbero urlato al
primo goal.
si erano da poco trasferiti in una casetta a schiera nella
periferia di una grande città, Mario e Barbara, i suoi genitori l’avevano
scelta anche perché si affacciava su una strada poco trafficata in cui i
bambini potevano giocare liberi al sicuro dalle auto e sbucciarsi le ginocchia
come si faceva un tempo. pur sapendo che avrebbero dovuto affrontare qualche
sacrificio in più avevano deciso di acquistare la casetta di testa e la primavera
scorsa avevano finalmente inaugurato il giardino invitando gli amici di sempre
a mangiare qualcosa e a trascorrere il pomeriggio insieme. erano perfino
riusciti a vedere la partita dal giardino, era stato sufficiente spostare un
po’ la tv e procurare qualche prolunga di fortuna. Barbara aveva comprato salsicce
e verdura che avevano cotto alla brace, poi le donne avevano chiacchierato di
figli, gli uomini di calcio e Lui e i suoi amici avevano mandato in fumo
praticamente tutto il lavoro di riordino che Barbara aveva svolto il giorno
prima.
Mario era un supereroe, lavorava su una ruspa gialla e aveva
due mani grandi che ci stavano entrambe le sue e c’era ancora posto. si
svegliava prestissimo al mattino e riusciva quasi sempre ad andare a prenderlo a
scuola il pomeriggio. tornando a casa si fermavano al baretto di Laura, la
sorella di sua madre. Mario prendeva una birra fresca che si godeva sospirando lentamente
seduto al tavolino nel patio e Lui una coppetta piccola tutta cioccolato che,
dopo pochi secondi, distribuiva equamente tra maglietta, pantaloni, scarpe e
capelli. insomma, non riusciva a mangiarne che un quarto o poco più.
quelle volte in cui Mario arrivava a casa dopo di Lui, gli
correva incontro, lo prendeva in braccio e gli chiedeva di aiutarlo a levarsi
la tuta da lavoro. Lui allora si appendeva letteralmente al colletto e
penzolava orgoglioso sulla schiena di suo padre fino a che Mario non abbassava
la lampo sul davanti e sfilava lentamente le braccia. giocavano spesso insieme
Lui e suo padre, delle volte si faceva fatica a distinguere un quarantenne in
quel groviglio di corpi sul tappeto.
quando capì che cosa era successo non c’era più modo di
tornare indietro, non aveva più quelle grosse mani a tenerlo al sicuro. SuperMario l’aveva lasciato solo quella
domenica pomeriggio sulla stradina davanti a casa. ora Lui procedeva in
equilibrio instabile con gli occhi lucidi e il cuore che scoppiava. sentiva
-orgoglioso e spaventato- la voce di suo papà che si allontanava.
sapeva andare in bicicletta, incerto ma senza rotelle.
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